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"I bambini di Maria Montessori"

[Mario Montessori, Selezione Reader's Digest, 35 (agosto 1965), n. 203, p. 7-13]

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Quand'ero bambino, nella nostra casa di Roma, una mattina di buon'ora fui destato da un boato profondo e dal mio letto che ondeggiava. Avevo appena aperto gli occhi, e già la mamma entrava nella stanza, calma e sorridente, e veniva a sedersi sull'orlo del mio letto.

«Mario» mi disse «vedi come oscilla il lampadario?». Lo vedevo. «Senti come trema il pavimento?». Accennai di sì.

Mia madre spalancò allora le braccia come invitandomi a una bella sorpresa. «Questo, Mario, è il terremoto».

Per Maria Montessori anche il terremoto era un'occasione per aprire la mente di un bimbo. Ella era convinta che Dio avesse acceso negli uomini il desiderio e la capacità di evolversi, e trovando il modo di liberare questa forza latente dette al mondo un nuovo concetto dell'educazione, intesa come un graduale e felice processo di scoperta e affermazione di sé.

 

Se consideriamo oggi la sua opera, pare quasi impossibile che sia riuscita a compiere tanto nel corso di una sola esistenza: dapprima nel campo scientifico, come antropologa e come prima donna italiana laureata in medicina, poi in quello della pedagogia infantile, come ispirata creatrice del metodo prescolastico che porta il suo nome e che è ormai diffuso in tutto il mondo. Il mio maggior motivo di orgoglio è quello di essere stato suo collaboratore. Una volta, quand'ero piccolo, mi trovai separato da lei in mezzo alla folla. Nel ritrovarla le dissi: «Mamma, tu non andrai mai in nessun posto dove io non possa seguirti». Ed è mancato poco che non confermassi nella realtà questa mia vanteria infantile: per 40 anni, come segretario, come assistente e come collaboratore, la seguii nei Paesi di mezzo mondo, dovunque la sua missione la chiamasse.

 

Diversamente dalla maggior parte delle austere donne professioniste del principio del secolo, mia madre vestiva con eleganza ed era una donna affascinante. Apprezzava la buona tavola, la buona compagnia, la buona conversazione. I suoi caldi occhi bruni potevano brillare di gioia di vivere non meno che osservare acutamente.

 

“Il segreto di una buona vita” la sentii dire una volta “sta nel vivere accettando la realtà”. Sapeva guardare al mondo che la circondava con spirito obiettivo, vedendolo qual era veramente, non attraverso il velo dell'illusione o della speranza. Nei suoi corsi di Pedagogia, insegnava per prima cosa a vedere. «Vi è stato insegnato a conquistare l'attenzione del bambino» diceva agli insegnanti. «Qui siete voi che dovete osservare il bambino».

 

“Ho troppo da fare”. Da piccola, mia madre era l'ultima della scuola, non era capace di farsi entrare le lezioni in testa. Poi, a dieci anni, da un giorno all'altro cambiò. Insieme con una religiosità più viva che non è insolita nelle bambine di quell'età, nacque in lei la coscienza della propria missione. I genitori se ne accorsero una volta in cui Maria era a letto per una grave forma di influenza. Il medico li aveva avvertiti di prepararsi al peggio, ma la piccola rassicurò la madre: “Non temere, mamma. Non morirò. Ho troppo da fare”.

 

Da quel momento fu la prima della classe. I suoi avrebbero voluto che si dedicasse all'insegnamento, l'unica professione che era allora aperta alle donne. Ma lei non era di quest'opinione: aveva deciso di diventare ingegnere! A 14 anni frequentava una scuola tecnica maschile; l'anno dopo s'appassionò alla biologia e finalmente decise di laurearsi in medicina.

 

“È impossibile” le disse il professor Guido Baccelli, preside della Facoltà di medicina all'Università di Roma. Ma alla fine Maria riuscì a ottenere di iscriversi alla Facoltà, vinse una borsa di studio e contribuì al proprio mantenimento dando lezioni private. Il padre, irriducibilmente avverso alla sua decisione, non le parlò per molti anni; e come unica donna nella facoltà di medicina, le toccò subire scherni e persecuzioni. Ma ottenne la laurea.


“I cari idioti”. Divenuta assistente nella clinica psichiatrica dell'Università, uno dei suoi compiti era quello di visitare i manicomi della città per scegliere i soggetti da studiare. A quel tempo i bambini deficienti erano considerati alla stregua dei pazzi e rinchiusi con loro. In un manicomio “la Dottoressa”, come la chiamavano spesso, vide un gruppo di questi piccoli infelici confinati in una stanza nuda, come carcerati. «Guardateli!» le disse la caposala con un accento di vaga repulsione.

«Appena finiscono di mangiare si buttano in terra come animali per cercare le briciole». Mia madre rimase a osservarli: con grida stridule e inarticolate, i bambini cercavano d'impadronirsi dei resti di pane, che manipolavano poi in forme diverse.

In un lampo d'intuizione, capì che i piccoli non cercavano tanto qualcosa da mangiare, quanto qualcosa da fare. Le loro manine brancolavano per stabilire un contatto col mondo! Una misteriosa forza interiore spingeva quei bambini a sviluppare il corpo, la mente, la personalità: invece di essere tenuti isolati e quasi imprigionati avrebbero dovuto essere liberati. Ma come era possibile stabilire un contatto con loro?

Il professor Baccelli, che intanto era diventato Ministro della Pubblica Istruzione, invitò Maria a tenere delle conferenze sull'educazione dei bambini deficienti e, in seguito all'interesse destato nel pubblico, fondò una scuola sperimentale per bambini anormali, affidandone la direzione alla dottoressa Montessori. «Ed ecco che dopotutto siete ancora e soltanto una donna e una maestra di asilo infantile!» le disse scherzando Baccelli.

«I miei cari idioti»: così mia madre chiama quei bimbi nel suo diario. Passava tutto il giorno, dalle 8 del mattino alle 7 di sera, con quei piccoli esseri ripudiati dalla società, osservandoli, facendo esperimenti, «alimentando la fiammella d'intelligenza che vedevo loro negli occhi». Dopo due anni di lavoro intenso presentò i suoi alunni a un esame normale presso una scuola statale. I suoi “cari idioti” dimostrarono di non essere dei casi disperati: molti superarono le prove non meno bene dei bambini normali.

Quando la notizia fu resa pubblica, suscitò una marea di commenti. Ma mia madre vedeva il vero significato della dimostrazione col rigoroso distacco dello studioso: lo strano non era che i bimbi deficienti potessero fare tanto, ma che i bimbi normali potessero fare poco meglio di loro.

Cominciò a visitare le scuole pubbliche e vide che in esse si faceva di tutto per scoraggiare lo spirito d'iniziativa dei bambini. I banchi erano così stretti che gli scolari dovevano contorcersi e piegarsi per infilarsi tra il sedile e lo scrittoio. L'idea era che una volta imprigionati là dentro non potessero far altro che prestare ascolto all'insegnante. Chi sedeva più tranquillo era premiato, e la minima irrequietezza era severamente punita. «Si direbbe che il senso morale stia di casa nel fondo dei calzoni» disse Maria a un gruppo d'insegnanti e di funzionari.

 

Le Case dei Bambini. Dopo aver avviata la scuola per bambini deficienti, mia madre tornò all'Università, dove col tempo ottenne la cattedra di antropologia. Dovevano passare altri sette anni prima che trovasse il vero scopo della sua vita. Grazie all'iniziativa privata, diverse centinaia di famiglie povere erano state tolte alla sporcizia e alla promiscuità di un grande caseggiato popolare e sistemate in alloggi più decenti. Ma mentre i genitori erano al lavoro e i bimbi più grandi a scuola, i piccoli sotto i sei anni rimanevano abbandonati a loro stessi. Si decise di fondare un asilo d'infanzia e la dottoressa Montessori fu invitata a dirigerlo. Mia madre accettò senz'esitare: era finalmente l'occasione tanto attesa per mettere alla prova i suoi metodi su bambini normali.

La sua Casa dei Bambini si aprì nel quartiere popolare di San Lorenzo. «Sessanta bambini lacrimosi e spaventati, così timidi che non era possibile cavar loro una parola di bocca; bambini avviliti, trascurati, pallidi, denutriti, cresciuti in case senza sole, senza nulla che stimolasse la loro intelligenza». Così mia madre descrive i piccoli affidati alle sue cure nel primo giorno che passarono insieme.

Nei due anni che seguirono, questi “piccoli vandali”, come li chiamò un giornalista, aiutarono mia madre a trasformare i metodi pedagogici. Invece d'imporre norme arbitrarie e d'inculcar loro nozioni per forza, cercò i mezzi per risvegliare il loro spirito d'iniziativa.

Il primo passo fu di emancipare i bimbi rendendoli civili. «Insegnate loro l'importanza di far bene anche le piccole cose» diceva alle sue maestre. «Poi lasciateli liberi di scegliersi da sé un'occupazione e di dedicarvisi finché ne hanno voglia». I “bambini Montessori” impararono a soffiarsi il naso senza far rumore, a lavarsi le mani, ad allacciarsi le scarpe e a lucidarle, ad affibbiarsi la cintura, a riempirsi il bicchiere d'acqua o di latte senza versarne una sola goccia. «L'auto-sufficienza e l'auto-disciplina» scriveva Maria Montessori «sono i segni esteriori di un sano funzionamento interiore». Freud manifestò una volta la sua ammirazione affermando che i bambini 

allevati con il metodo Montessori non sarebbero stati clienti degli psicoanalisti, una volta divenuti adulti.

 

Nuovi sussidi didattici. Convinta che l'intelligenza del bimbo si sviluppa attraverso i sensi, mia madre ideò dei sussidi didattici che lo aiutassero a sentire un soggetto astratto attraverso l'esperienza diretta con oggetti tangibili. Maneggiando dei legnetti tutti uguali ma dipinti in tinte diverse, il bimbo impara a distinguere le gradazioni dei colori dal più chiaro al più scuro. Scegliendo tra campanelle apparentemente uguali ma che producono suoni di tonalità diverse, scopre le note e il loro ordine nella scala musicale. (Molti dei moderni giocattoli istruttivi s'ispirano a quei sussidi didattici che Maria Montessori ideò oltre mezzo secolo fa).

 

“So scrivere!”. Secondo mia madre, un bimbo di tre anni non era troppo piccolo per cominciare a familiarizzarsi con le lettere dell'alfabeto ritagliate in carta vetrata ch'erano una delle sue molte invenzioni. Un giorno un maschietto, mentre armeggiava con la matita, scrisse la parola mano, e cominciò a gridare con quanta voce aveva in gola: «So scrivere!». La maestra e gli altri bambini gli si fecero intorno, pieni di stupore e d'entusiasmo. E poi, uno alla volta, anche gli altri cominciarono a scrivere, gridando: «Anch'io, anch'io!». Nessuno aveva insegnato loro a scrivere: mia madre si era limitata a lasciarli fare da soli, in un ambiente adeguatamente predisposto affinché essi potessero fare le loro scoperte e giungere a formulare dei concetti attraverso l'esperienza concreta.

Alla Casa dei Bambini i piccoli imparavano a scrivere quattro o cinque mesi prima di imparare a leggere. Un giorno, in una classe di bimbi che avevano appena cominciato a scrivere qualche parola, mia madre scrisse sulla lavagna: «Chi sa leggere questo, venga a darmi un bacio». Passarono alcuni giorni senza che succedesse niente. «Pensavano che scrivessi sulla lavagna per mio divertimento, come facevano loro» disse mia madre. «Poi, al quarto giorno, una bimbetta piccina piccina venne da me, mi disse “Eccomi”, e mi dette un bacio». A quattro o cinque anni quasi tutti i bambini della Casa sapevano leggere e scrivere.

La scuola rivelò un'altra cosa: non è la paura della punizione o la speranza della ricompensa che costituisce l'incentivo del bambino, ma la semplice soddisfazione di fare qualcosa. I bambini erano messi in condizione di fare quello che sentivano: e la maggior ricompensa era di passare allo stadio successivo.

 

Tempo di guerra. Dopo la pubblicazione, avvenuta nel 1912, del suo primo libro di pedagogia, Il metodo Montessori, mia madre vide i suoi principi per l'educazione dei più piccini adottati in molte scuole d'Europa e degli Stati Uniti. Più tardi, con l'avvento del totalitarismo, quei principi furono attaccati. In Germania e in Austria i nazisti bruciarono la sua effige sul rogo dei suoi libri. Mussolini cercò di sfruttare la sua fama, ma divenne suo nemico quand'essa si rifiutò di servire ai fini della propaganda fascista: le scuole e gl'istituti da lei fondati furono chiusi per ordine del governo.

«Mario» mi disse allora mia madre «dobbiamo renderci conto che Dio ha così voluto farci capire che qui abbiamo fatto abbastanza, e che Egli ha bisogno di noi altrove». E così, a 64 anni, mia madre lasciò l'Italia e andò a stabilirsi a Barcellona. Allo scoppio della guerra civile spagnola io ero a Londra e mia madre era sola nella nostra casa di Barcellona con tre dei miei bambini. Autocarri carichi di miliziani pattugliavano le strade, arrestando chiunque fosse sospetto di simpatizzare per Franco. C'era molto malanimo contro i cattolici, e il fatto di essere per di più anche Italiani raddoppiava il pericolo.

Un autocarro si arrestò alla nostra porta: i miliziani armati che l'occupavano fissarono attentamente la casa. Mia madre, come mi raccontò poi il più grande dei miei figli, si allontanò dalla finestra e raccolse intorno a sé i bambini. «Una volta o l'altra tutti dobbiamo morire» disse, tranquilla come quando aveva spiegato a me il terremoto. «Per alcuni il momento viene prima, per altri dopo. Noi adesso pregheremo e chiederemo a Dio di guidarci dovunque è destino che dobbiamo andare».

Poi si sentì il rumore di un autocarro che si allontanava. Mio figlio scese e cautamente guardò fuori dal portone. Gli uomini se n'erano andati, ma avevano lasciato qualcosa; tracciata con vernice rossa su un muro, c'era una scritta che diceva: «Rispettate questa casa: è la casa di un'amica dei bambini». Ed era firmata con l'emblema comunista, la falce e il martello.

In un Paese dopo l'altro la guerra faceva chiudere le scuole Montessori. Dopo essere fuggita dalla Spagna su di una cannoniera inglese, mia madre si stabilì ad Amsterdam. Fu poi chiamata in India per collaborare alla formazione di nuovi insegnanti, ed eravamo laggiù quando l'Italia entrò in guerra. Sebbene fossimo internati come “sudditi stranieri nemici”, mia madre continuò a tenere i suoi corsi di pedagogia.

 

L'Africa chiama. Finita la guerra mia madre, ormai settantenne, tornò in Europa. Le sue idee erano tornate ad imporsi, le scuole e i centri pedagogici Montessori fiorivano ovunque. Mia madre passava molto tempo a leggere e scrivere nella nostra casa in riva al mare, in Olanda, nella zona dei tulipani a Noordwijk aan Zee.

Un giorno di maggio - i tulipani erano in piena fioritura - mentre stavo pranzando con lei davanti a una finestra da cui si godeva la vista dei fiori e del mare, le dissi che avevo conosciuto un funzionario del Ghana, un Paese che avrebbe presto ottenuto l'indipendenza e che aveva un bisogno assoluto di scuole. Costui voleva che mia madre ed io aiutassimo il governo a formare i nuovi insegnanti.

«Se ci sono dei bimbi al mondo che hanno bisogno di aiuto» disse mia madre «sono proprio questi poveri bimbi delle nazioni africane. Certo che dobbiamo andare».

 

Le ricordai il clima africano, le condizioni di vita primitive. Dopotutto aveva 81 anni.

«E così, non vuoi che io venga!» mi rimproverò dolcemente. «Bada, potrei anche partire senza di te». «Non andrai mai in nessun posto dove io non possa seguirti» le risposi, ripetendo la mia antica vanteria infantile.

Uscii dalla stanza per cercare in un atlante la carta dell'Africa. Quando tornai, mia madre era morta. Sarebbe andata nel Ghana o in qualsiasi altro posto dove dei bimbi avessero avuto bisogno di lei.

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